Il 60% delle malattie infettive umane proviene dagli animali, come le Invasive Alien Species, specie animali, dalla nutria allo scoiattolo grigio e al procione, volontariamente o accidentalmente introdotte dall’uomo al di fuori dal proprio ambiente naturale. Conoscere e comprendere i meccanismi all’origine di nuove infezioni da specie invasive significa identificare in anticipo nuovi focolai epidemici e rispondere in maniera tempestiva a potenziali emergenze di sanità pubblica.

Sul tema interviene un recente lavoro, condotto da un team di ricerca coordinato da Nicola Ferrari, docente al dipartimento di Medicina veterinaria e scienze animali dell’Università Statale di Milano e pubblicato sulla rivista “Science of the Total Environment”, che ha delineato un quadro più chiaro delle informazioni epidemiologiche disponibili sulle IAS analizzando le conoscenze  attuali presenti  nella letteratura scientifica sul tema.

“Le specie alloctone invasive sono molto note a biologi e agricoltori in quanto sono una minaccia per la conservazione della biodiversità e fonte di ingenti danni economici, ma meno conosciute dagli operatori di sanità pubblica e animale”, afferma Nicola Ferrari, docente di Parassitologia e malattie parassitarie negli animali alla Statale di Milano. “Proprio in quanto specie introdotte dall’uomo al di fuori dal proprio areale naturale, le IAS possono infatti alterare la distribuzione e trasmissione degli agenti infettivi, portando all’insorgenza o alla re-insorgenza di malattie di rilevanza per la salute umana e animale”.

Analizzando le specie mammifere non autoctone presenti nella lista di interesse prioritario dell’Unione Europea, gli autori dello studio hanno identificato 345 agenti patogeni nel procione, 124 nello scoiattolo grigio e 75 nella nutria. Le analisi hanno però sottolineato che, mediamente, solo il 30% dei patogeni che potrebbero ospitare questi mammiferi risulta finora identificato. Inoltre considerando solo i patogeni di interesse per la sanità pubblica e animale quali la rabbia e la malattia di Lyme, le stime hanno mostrato come le attuali informazioni siano caratterizzate da elevati livelli di incertezza.

“I risultati emersi evidenziano come esista un forte gap conoscitivo verso le infezioni delle IAS, con una conseguente potenziale forte sottostima del rischio infettivo a esse legato. La mancanza di informazioni esaustive evidenzia la necessita di una maggiore e più organica raccolta dei dati epidemiologici su queste specie, nonché dello sviluppo di metodiche per la valutazione e mitigazione del rischio infettivo che tengano conto dei forti gap conoscitivi attualmente esistenti”, conclude Ferrari.

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